L’ETERNO DILEMMA TRA AMORE E DENARO

Quante volte, magari da ragazzi, progettando il nostro futuro accanto alla fidanzata dei sogni, abbiamo immaginato di vivere “due cuori e una capanna”, trascorrendo giornate serene coccolando e lasciandoci coccolare dalla persona amata?

Poi però, passata la fase dell’infatuazione, quando piano piano la passione iniziava a scemare e la routine prendeva il sopravvento, ci siamo resi conto che di soli sentimenti non si campa e che oltre a quelli bisogna anche preoccuparsi di sbarcare il lunario. È stato probabilmente allora che a malincuore abbiamo cominciato, specie le femmine più sensibili ai condizionamenti sociali, a pensare che forse era meglio sistemarsi insieme a un “buon partito”, con un lavoro fisso e una famiglia benestante alle spalle, mettendo da parte il romanticismo.

Nel calcio, quello di oggi definito anche “calcio business” o “calcio moderno” da chi tenta in tal modo di attribuirgli valenze positive, non è diverso. Checché ne dicano i più qualificati “addetti ai lavori”, molti dei quali animati da interessi personali che nulla hanno a che vedere con il genuino spirito sportivo, coniugare le legittime aspettative dei tifosi con le esigenze di bilancio è impresa irrealizzabile. La nostra Inter non fa eccezione, e neanche a farlo apposta a pagarne le conseguenze è l’anello più debole (ancorché importante) della catena: il pubblico.

Chi vi scrive aveva già captato segnali preoccupanti alla vigilia di una stagione che per i colori neroazzurri si sarebbe conclusa trionfalmente con la storica conquista del Triplete, ancora oggi sogno proibito delle rivali storiche. Ricordate quella SuperCoppa Italiana giocata a diecimila chilometri di distanza per onorare l’impegno con i nuovi ricchi cinesi, che cominciavano a fiutare l’affare del grande calcio? E ricordate quel ritiro estivo nella canicola statunitense, inframezzato da amichevoli che nulla avevano da invidiare alle sfide decisive di Champions League? Una preparazione fisica sommaria, una “sfilata” di calciatori trasformati in divi di Hollywood, a beneficio delle manie di grandezza degli americani, sempre convinti che basti una manciata di dollari per comprarsi una tradizione che non hanno e che non avranno mai.

Questo è successo dieci anni fa. Ma oggi? Com’è la situazione?

La famiglia Zhang, proprietaria di Suning e probabilmente presente al gran completo quel giorno di agosto 2009 sugli spalti dello stadio “Nido d’uccello” di Pechino, ha acquisito le quote di maggioranza della società.

Lo storico centro di allenamento di Appiano Gentile, fortemente voluto dal presidentissimo Angelo Moratti e a lui intitolato, è stato ribattezzato “Suning training centre”.

In occasione dell’ultimo Inter-Bologna sul retro delle maglie indossate dai giocatori dell’unica squadra di Milano, anziché i loro cognomi campeggiavano incomprensibili ideogrammi. Doveroso omaggio al Capodanno cinese, ricorrenza da sempre “sentitissima” dai frequentatori della Scala del Calcio…

Maurito Icardi, che dell’Inter non era solo il bomber incontrastato ma anche il capitano, ben coadiuvato da una procuratrice in tutto e per tutto simile (curve a parte, s’intende) al maestro della categoria Mino Raiola, ha da un paio di mesi ridotto drasticamente la sua media realizzativa, avendo in testa pensieri ben più importanti quali per esempio l’adeguamento (con due anni di anticipo) del suo contratto da cinque milioni a stagione. Beh, del resto, tra figli naturali e acquisiti, tiene famiglia…

Qualcuno a questo punto potrebbe avanzare illazioni su vertici societari distanti dalla realtà interista non solo geograficamente. Nulla di più sbagliato…

All’indomani degli incresciosi ululati “razzisti”, che avevano indotto il “mite” difensore napoletano Koulibaly a una reazione nervosa altrimenti sconosciuta al suo personaggio e portato alla “sacrosanta” chiusura del “Meazza”, la voce della proprietà si è levata alta e roboante dall’estremo Oriente fino all’ufficio del giudice sportivo: rinuncia al ricorso come un’implicita ammissione di colpa, e per dimostrare tangibilmente la sensibilità verso questo “gravissimo” problema che affligge il nostro calcio, ecco lanciata al modico investimento di 9.000 euro la “geniale” campagna “Buu: Brothers Universally United*. Non urlatelo, scrivetelo!”

Ora, se io volessi pensare male potrei evidenziare che con quei soldi si sarebbero potuti installare dei maxischermi fuori dallo stadio, così da permettere ai tifosi (specie agli abbonati che di fatto hanno pagato il biglietto inutilmente) di assistere alle partite a porte chiuse… o sospettare che l’iniziativa strappalacrime fosse volta unicamente a cavalcare l’onda dilagante del politicamente corretto a tutti i costi per farsi pubblicità e crearsi una immagine positiva agli occhi dei perbenisti in servizio permanente… o addirittura ipotizzare che Koulibaly non abbia subìto nessuna contestazione, men che meno di stampo razzista, ma fosse semplicemente nervoso perché Napolitano lo aveva saltato come un birillo costringendolo al fallo di frustrazione…

Nooooo, ma figuriamoci. Scusate amici lettori, a volte non so proprio come mi vengano in mente certe idee…

 

* “Fratelli uniti universalmente”, per chi non ha familiarità con la lingua inglese.

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